A me, per credere in Dio, è sempre mancata la costanza. Credere è un mutuo troppo lungo per una vita sola, e non fai altro che pagarne gli interessi. Dio è capitalista.
Eppure, anche se mi manca una dimensione metafisica, sono sempre stato un entusiasta della vita. Ma inizio a pensare che la cosa non sia reciproca.
Vado per i trent’anni, tutele sul lavoro ne ho sempre avute poche e da un anno ho lasciato la Sicilia per trovare quella che un tempo sarebbe stata una proverbiale America. Pensavo Bologna fosse abbastanza.
Trovai un lavoro, tre mesi tramite agenzia interinale, poi un primo rinnovo, poi altri tre mesi, poi gli ultimi tre mesi e dopo, solo dopo il tappeto rosso dell’azienda sarebbe scivolato sotto alle mie sneakers bianche sempre troppo sporche. Ero fiducioso, tanto da concedermi persino l’arroganza di pubblicare un romanzo, il mio primo, un vecchio sogno nato dal seme di Scerbanenco e Houellebecq, covato da Limonov e Sciascia, sedotto da Abbate e Pynchon. I miei margini iniziavano ad assumere sfumature piacevoli.
Presentai il romanzo al pubblico in un pub del centro, metà Febbraio, mentre la tv raccontava il Covid come una febbre tropicale. Però i tropici si erano spostati in Lombardia. All’epoca, ancora a distanza di sicurezza.
La settimana dopo presi le ferie che mi spettavano per realizzare un breve tour di presentazioni a casa mia, in Sicilia. Ero felice di rivedere quelli che per ventotto anni erano stati la mia famiglia. Tornai a Bologna il 9 Marzo, ma i tropici erano arrivati prima di me e da quella notte il massimo della libertà concessami è la fuga al supermercato.
Quel tappeto rosso non c’è più, il contratto è scaduto senza rinnovo. Il romanzo non ha avuto la pubblicità che meritava. Le sneakers non si sporcano perché non le uso. L’ultimo stipendio resterà quello di Aprile, il prossimo quando troverò un lavoro nuovo.
A me, per credere in Dio, mi è sempre mancata la costanza, per fortuna: altrimenti a quest’ora lo avrei già mandato a fanculo.”