DIARIO DI SERENA, UN’INSEGNANTE.

31 marzo, oggi dopo più di un mese di chiusura della scuola tutti i miei alunni possono fare lezione online. Anche Ahmed, dopo numerose telefonate in lingue incomprensibili per me e per lui, videochiamate su whatsapp, aver spedito un’autorizzazione in segreteria, aver mandato il cugino a scuola a prendere un tablet, aver ricevuto le credenziali, cambiato la password, aver guardato gmail e poi scaricato l’applicazione di meet, stasera alle 21 mi ha detto: grazie prof, ora ci sono. Ok, ho pensato, da domani ci sono tutti.

In queste settimane ci siamo visti su una piattaforma per videoconferenze di gruppo, prima solo sentiti, con le webcam spente, poi piano piano le abbiamo accese e siamo entrati nelle case di tutti. Poche stanze tutte per sé, con Khalifa che è nata da pochi mesi e ci ha fatto sentire le sue urla o Samu che compariva nello schermo di Jonatan. Ogni giorno c’era un compagno che si aggiungeva. E i primi subito a spiegare come fare, tra chi il microfono lo lascia sempre acceso e chi lo spegne a ogni fine intervento come un vero professionista delle call. Mi chiedo se sono saltate le convenzioni, li ho sentiti su whatsapp, a orari improbabili, la mia camera è diventata la mia aula, la sala insegnanti e l’auditorium del collegio docenti. Ci siamo stretti l’uno più vicino all’altro, quasi a stare tutti dentro lo schermo. Prima a domandarci cosa stesse succedendo, e quando si sarebbe tornati a scuola, poi abbiamo continuato le nostre letture. Abbiamo letto e fatto poesia. E poi il racconto della Seconda Guerra Mondiale e il nostro diario della quarantena così simile e diverso da altri diari che abbiamo letto. Come nella ritirata dalla Russia quando i pochi superstiti che arrivarono in Italia furono messi in quarantena e uno di questi lo ha lasciato scritto nel suo diario. Abbiamo provato a tornare a scuola.

Mentre loro partecipano alle lezioni io cerco di intravedere la comprensione nei loro silenzi, li chiamo uno ad uno, cerco di far passare attraverso internet le emozioni con gli sguardi sperando che in quel momento abbiano guardato la mia webcam, mi chiedo la prossemica dov’è? E voi come fate? Quali strategie nuove utilizzate? E’ un continuo domandarsi insieme cosa va e cosa non va del nostro fare scuola. Mi chiedo come non spezzare il filo dei progetti avviati a scuola, come portarlo avanti, perché penso che se la rottura ci sia stata (e forse è iniziata anche prima del Covid), ora è il tempo del ricucire. In queste settimane la mia più grande preoccupazione era il distacco così repentino, senza un saluto e un libro da portarsi a casa, e come far sentir loro la vicinanza e la cura. Ora penso all’interruzione del percorso di crescita e formazione. Perché per Bilal, David e Fatima la scuola media è un rifugio, un’alternativa fisica alla strada o alla casa, un luogo di riscatto, un luogo dove imparare la lingua italiana o scoprire le proprie passioni, un luogo dove confrontarsi con adulti che ascoltano. Come renderlo tale anche ora? La scuola è all’altezza di questa situazione? Alcuni prof si sono già riuniti per pensare insieme “Che fare?”. (come il Tavolo Saltamuri!). Altri invece procedono spediti a finire i programmi. E allora mentre c’è chi pensa già alle valutazioni e alla pianificazione delle verifiche, penso alla discussione di oggi, era intorno alle parole e all’importanza di continuare a scrivere anche a casa, e Haroon ha detto: “prof. ci vogliono più di poche parole per dire le proprie idee”. Allora penso a chi queste parole ora non le trova e si è perso. Penso agli studenti che trovi sempre nei corridoi, fuori dalla classe e penso che ora in questa classe virtuale non ci sono i corridoi e loro nemmeno. Anche per loro, che tipo di scuola pensiamo?

La scuola di oggi è così messa a nudo. Una scuola che in questi giorni è manifestamente classista, facendo emergere il divario digitale ed economico tra i ragazzi nonostante professori ed educatori abbiano messo in atto ogni mezzo necessario a non escludere nessuno. Una scuola alla quale si è relegato tutto l’educare e che ora mostra tutte le sue inadeguatezze. Come ripensare allora ad una comunità educante? Una scuola diffusa che metta al centro anche il legame con le famiglie oggi così fondamentale per la riuscita dell’attività a distanza e che rimetta al centro l’apprendimento anche tra compagni. Una scuola che vive grazie a insegnanti precari che ogni anno il 30 giugno interrompono le loro relazioni e il filo dei loro discorsi. Ora tutto questo mostra quanto l’assenza di una visione a lungo termine sia causa di isolamento ed esclusione e di un legame così debole con i ragazzi e le famiglie. Come risolvere allora la questione della precarietà? E come pensare ad una scuola in cui la valutazione costante dei comportamenti e della conoscenza venga sostituita semmai dalla ricerca della qualità relazionale dell’intera comunità? Mi chiedo perché non dedichiamo questo momento, ad iniziare a ripensare alla scuola nella sua totalità. Come sarà quando finalmente saremo fuori dall’emergenza? Non torniamo a come era prima, facciamo meglio!

Illustrazione di Giulia Betti