IL RACCONTO DI ALICE

In strade deserte popolate solo da forze dell’ordine attraverso Bologna in bicicletta.

Meglio evitare l’autobus di questi tempi. Autocertificazione nello zaino e speriamo che ad un controllo mi credano quando dico che vado al lavoro. Entro in struttura. Sospiro di sollievo, salva. Sicuri?

Faccio parte di una di quelle categorie che continua a lavorare, il mio stipendio rimarrà invariato rispetto ai mesi scorsi, posso continuare a pagare bollette e affitto. Eppure mi sembra di pagare lo stesso qualcosa.

Sono un’educatrice di 27 anni e lavoro dove sono nata, a Bologna. Mi occupo di una delle fasce più esposte al coronavirus, i maggiori di 65 anni. La struttura è piccola e gli operatori pochi. Al momento una scatola di mascherine monouso e alcuni pacchi di guanti del supermercato, comprati prima che sparissero dal commercio, sono sufficienti. La tv è costantemente accesa, il numero di morti e dei contagiati aggiornato quotidianamente e le parole d’ordine ben recepite: non si esce.

Ciò che manca è uno sguardo lucido sulla realtà. Io ero pagata al minimo prima e lo sono tuttora, i ridicoli fondi dati alla struttura rimangono ridicoli e gli strumenti per fronteggiare una pandemia sono gli stessi che usavamo per fronteggiare un taglietto da coltello da cucina. Senza contare che molti degli ospiti si pagano la struttura in parte con la pensione. Pensione che dovrebbe servire a pagarsi la tranquillità che ora è sostituita dalla speranza che il virus rimanga fuori. Se entra, nessuno è certo di poterlo fronteggiare, sicuramente non lo si potrà fare al meglio. Per non parlare del terrore di finire ora all’ospedale.

Sono settimane che ci ripetiamo lo stesso mantra: tutela. Tutela che doveva essere tenuta in considerazione quando venivano tagliati i fondi ai servizi socio-sanitari, che hanno cancellato la possibilità di lavorare degnamente e di attuare dei veri progetti di accompagnamento alla persona e non un rattoppo semi-sostenibile di una vita in difficoltà. Giro con in mente una costante parola che non vorrei mai usare per descrivermi: sacrificabile. Io, loro, altri lavoratori, chi non riesce a fare la spesa, chi riuscirà a farla al pelo. Coloro che, una volta finita questa storia, dovranno lottare per riuscire ad usare di nuovo la parola quotidianità.

*Illustrazione di Guido Brualdi